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Sergej M. Ejzenštejn, il grande regista russo, si interessò molto alla psicoanalisi e alla psicologia. Fu grande amico di Lev Vygotskij, fondatore della scuola storico culturale, e di Aleksandr Lurija, capostipite della neuropsicologia, i quali, nei primi anni venti, aderirono alla psicoanalisi, promuovendola in Russia. Lurjia fu presidente della Società Psicoanalitica di Mosca che vedeva, tra i suoi ranghi, molti giovani rivoluzionari entusiasti.
Negli scritti di Ejzenštejn sul linguaggio cinematografico troviamo concetti psicologici di Vygotskij come l’agglutinazione e il monologo interno, che il regista ripropone, in altra forma, nella teoria del montaggio filmico. Rispetto alla psicoanalisi, Ejzenštejn s’interessò alla regressione: il fruitore dell’arte, anche cinematografica, deve regredire e insieme attivare la parte più matura della psiche. Nell’evocare ciòè la capacità dell’artista. Ejzenštejn fu amico di Hanns Sachs e conobbe Otto Rank, Sándor Ferenczi, Franz Alexander e Wilhelm Reich. Nel 1929 tenne una conferenza presso l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, dove conobbe anche Kurt Lewin, uno dei fondatori della Gestalt. In URSS e negli USA ebbe due brevi esperienze di terapia a orientamento psicoanalitico. Purtroppo, con Stalin, la psicoanalisi fu accostata al trotskijsmo dai teorici del regime e, nella severa condanna che seguì, fu coinvolto anche Ejzenštejn. In una circostanza fu, addirittura, convocato personalmente da Stalin, per essere redarguito. In seguito, il regista fu costretto ad una sorta di autocritica, al ritorno dagli Stati Uniti, nel 1935, durante la Conferenza dei lavoratori della cinematografia sovietica.
La stessa sorte di condanna incontrò il pensiero psicologico di Vygotskij. Una risoluzione del Comitato Centrale del PCUS condannò le “teorie pedologiche” dello psicologo. Per inciso, nella medesima circostanza, furono condannate la teoria della relatività e gli studi propedeutici alla biologia molecolare bloccando, in questi ambiti, la scienza sovietica per decenni. Per poter parlare di inconscio e teorie psicoanalitiche si sarebbero dovuti attendere gli anni settanta del novecento. Per Ejzenštejn, l’arte è una impresa antropologica intrinseca alla cultura umana e capace di evolversi nel corso della storia. L’itinerario dell’arte può essere esaminato da molte discipline, non solo umanistiche. Il comune denominatore, che consente questo cosmopolitismo concettuale, è la filosofia dialettica. Sia per Ejzenštejn, sia per Vygotskij, la dialettica rappresenta il modello più avanzato d’indagine e conoscenza, nell’arte come nella psicologia, in ambito teorico e pratico. Al pensiero dialettico fecero riferimento il regista e il gruppo multidisciplinare di giovani intellettuali che egli frequentò.